Fu nella prima metà degli anni sessanta che si iniziò a
coltivare la profondità nella musica, in modo particolare nel jazz. L’esigenza
più sentita fu quella di allontanarsi dalla ricerca di una dimensione estetica
per avvicinarsi ad un obiettivo più intimo, maggiormente vicino ad un aspetto
più umano e spirituale. Iniziarono a scomparire le improvvisazioni funamboliche
“orizzontali” e ad apparire quelle “verticali” verso l’alto, verso Dio, verso
il cosmo. Fu quello il periodo in cui John Coltrane dette vita a quella suite
in quattro movimenti ancora oggi considerata uno dei capolavori del Novecento. A Love Supreme fu quattro momenti
diversi di una preghiera monoteista e fu mantra immortale. Profondo – deep si
direbbe oggi secondo un inglesismo accettato ormai a tutte le latitudini –
spirituale, avvolgente. E fu quel mantra a far avvicinare al jazz una
generazione all’epoca innamorata del rock’n’roll, non Bitches Brew che fu operazione ruffiana anche se di altissimo
profilo. Profondità e consapevolezza che avevano le loro radici in qualcosa che
sembrava stesse cambiando e che coinvolgeva musicisti fieri e orgogliosi,
consci di stare sviluppando un linguaggio che avrebbe segnato le sorti della
musica di là da venire. Sul fronte dell’entertainment a fronte di questa
conscioussness esplodevano fenomeni come il funk e il soul, niente altro che
espressioni differenti di un sentire comune. Ecco, se dobbiamo oggi - in
un’epoca in cui tutto è stato già suonato, dal rebetiko al gamelan, dal rap al
klezmer, in un’epoca in cui il manierismo è ormai sottofondo da supermarket –
trovare le coordinate di Free Souls
dobbiamo riferirci ad un periodo come quello. Un periodo in cui la profondità
avvolgeva, senza etichette, un certo modo di concepire la musica e in particolare
la musica afroamericana che nel jazz, e in tutto quello che gli ruotava
attorno, traeva la sua linfa di sopravvivenza. E’ il termine soul che
sintetizza tutto questo? E allora usiamolo senza inibizioni perché solo il suo
mood ha avuto da allora la capacità di arricchire tutti i suoni che ci hanno
accompagnati nella nostra quotidianità sino ad oggi. Persino le battute techno più meccaniche riescono a
trasmettere profondità quando vi fa capolino il soul. Free Souls è soul music nella sua accezione più coinvolgente quando
la voce di Marvin Parks si presenta morbida in Shades of Joy e in If I
Should Lose You (uno standard di Leo Robin e Ralph Rainger da molti
conosciuto come cavallo di battaglia di Hank Mobley); è Africa quando Tasha’s
World e Bridgette Amofah si fanno avvolgere dalla continuità degli assoli di
Magnus Lindgren e Timo Lassy (entrambi al flauto rispettivamente in Soul Revelation e in Baltimore Oriole); è jazz, e di gran
classe, nei fraseggi di Gaetano Partipilo (Goddess
Of The Sea, Ode To Billie Joe, Live
Your Life), di Francesco Lento (una promessa della tromba jazz di questi
anni in Goddess Of The Sea e Ode To Billie Joe), di Timo Lassy (Free
Souls), di Greg Osby Ahmad’s Blues),
di Rosario Giuliani (If I Should Lose You),
di Daniele Scannapieco (Uhuru), di
Logan Richardson (Sunrise un piccolo
capolavoro), di Fabrizio Bosso(la bellissima African Other Blues con la voce di Marvin Parks); è ancora jazz nel
riuscito contributo vocale di Josè James in Goddess
Of The Sea. Mentre il groove ritmico di Teppo Makynen, Lorenzo Tucci,
Pierpaolo Bisogno, Paolo Benedettini, Luca Alemanno, Pietro Ciancaglini e
Michael Pinto danno il giusto colore e supporto a tutta questa operazione
discografica. Né vanno dimenticati i contributi di Melanie Charles (Spirit Of Nature, Ahmad’s Blues, Live Your Life)
e di Heidi Vogel (dal combo dei Cinematic Orchestra in Sandalia Dela). Su tutti
Nicola Conte a tessere le fila e le connessioni di una tela articolata in cui a
mò di puzzle, senza alcuna stratificazione, sono cuciti decenni di ascolti e di
convinzioni musicali profonde. Abile manipolatore di suoni, ma anche capace
ideatore di strutture musicali moderne, Nicola ci ha da tempo abituati ad
assistere alla sua capacità di mettere insieme, con i suoi inserimenti strumentali
e con la sua capacità di sintesi, le sonorità e le personalità più variegate.
Il valore aggiunto di questo disco è la profondità, qualcosa a metà tra
consapevolezza e spiritualità. Nulla a che vedere con inutili mode, piuttosto
qualcosa che nasce dall’esigenza di scavare nelle viscere delle propria anima,
delle proprie influenze. Conosco quest’uomo da troppo tempo per non considerare
che tutto questo viene da una grande voglia di mettere al centro del proprio
mondo la voglia di crescere e migliorarsi, ma soprattutto da una forte,
fortissima passione per questo meraviglioso universo che si chiama musica.
Nicola Gaeta - autore
del libro "BAM, IL JAZZ OGGI A NEW YORK"
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